Anno 1957, prima elementare. “A scuola con te c’è un bambino infelice ?” mi chiese mia nonna. Risposi che noi femmine avevamo un po’ piagnucolato quando le mamme erano andate via, ma nessun maschio aveva pianto, quindi no, bambini infelici non c’erano.
Nonna mi spiegò che “infelice” era un modo per indicare le persone… “malate”, quelle che oggi definiamo “diversamente abili”, per intenderci.
Sì, un bambino in carrozzella c’era, ma non era infelice: parlava, rideva, giocava, litigava con noi. Piuttosto mi sembrava difficile per lui salire i quattro scalini che conducevano all’aula, sedersi in quelle gabbie di legno che erano allora i banchi, alzarsi in piedi quando entrava in aula un adulto, non far cadere la palla se noi gliela tiravamo stando in piedi….
Insomma, imparai a sei anni che l’handicap non sta dentro le persone, Carlo era Carlo non la sua sedia a rotelle, piuttosto l’handicap stava nel contesto in cui viveva.
Non si identifica una persona con la sua disabilità, vanno privilegiati i rapporti tra l’individuo e il contesto familiare, scolastico, lavorativo, ricreativo, insomma con la comunità in cui vive. Se strutture e servizi fossero altri e adeguati ai bisogni, dai più semplici ai più articolati, migliore, più equa, “diversa” sarebbe la vita, non le persone.
Altro che “diversamente abili”, io direi “superiormente abili”: provateci voi a camminare con una sedia a rotelle su certi marciapiedi pescaresi, buche, pali, sconnessioni e, se vi va bene, il percorso finisce sui cassonetti della spazzatura! Provateci voi ad occhi chiusi ad arrivare alla stazione e non buttarvi sotto un treno seguendo la famosa striscia gialla, a salire su un autobus con quei gradini se solo un ginocchio non vi regge e, purtroppo, potrei andare avanti ancora e ancora.
Nel 2001 l’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha pubblicato l’International classification of functioning, disability and healt che si caratterizza per andare oltre una prospettiva medica tradizionale considerando gli aspetti sociali e ambientali, orientandosi cioè sulla salute e sul funzionamento della persona, sulla interazione persona-ambiente, sullo sviluppo e la valorizzazione delle potenzialità di ciascuno.
Non è solo un modo di guardare all’handicap, è un modo di guardare alla vita di ciascuno di noi.
Quanto vivremmo meglio in una città sana, orientata alla salute dei cittadini, attenta al loro modo di funzionare nel contesto sociale, siano essi bambini, donne, anziani, cosiddetti abili e non, in una città senza barriere né architettoniche né mentali, senza pietismi ma con diritti riconosciuti, senza falsi pudori ma senza discriminazioni, in una città di tutte e di tutti, per tutte e per tutti.